Sempre più spesso nei siti aziendali è presente la sezione D&I; ad esempio, in quella del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane si recita:
“Ci impegniamo a promuovere un approccio organizzativo basato sulla comprensione, il rispetto e la valorizzazione delle differenze (genere, età, orientamento, disabilità, etnia, competenze, status socio-economico, credenze politiche, religiose o di altra natura, etc.) di ciascuna persona all’interno della nostra azienda, in ottica di condivisione e ampliamento dei punti di vista nonché di sviluppo delle competenze, del talento e delle energie fisiche e intellettuali di ognuna di loro”.
Cosa si intende per Diversity & Inclusion
D&I sta per Diversity and Inclusion (diversità e inclusione) ed è un concetto che anche nel nostro Paese, negli ultimi decenni, sta guadagnando crescente importanza nell’ambiente di lavoro. È la strategia finalizzata a perseguire, per ogni persona, uguali opportunità e medesimo trattamento nell’accesso all’occupazione, alla crescita, alla valorizzazione e alla retribuzione.
Vediamo come e perché diversità ed inclusione nel mondo del lavoro sono divenuti temi importanti al punto da essere inseriti come obiettivi in agenda.
Diversity management
È necessario fare un salto all’indietro per soffermarsi su ciò che è successo in America tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni ’80. In quei decenni gli Stati Uniti vivevano profonde trasformazioni: il boom economico, la diffusione degli elettrodomestici che alleggeriva l’impegno femminile per le mansioni di ambito famigliare, i grandi movimenti socio-culturali del Sessantotto, del Femminismo, dei diritti civili, delle lotte LGBTQ+ e la nascita del Pride. Siamo quindi di fronte ad una società estremamente variegata, come mai in passato, con nuovi punti di vista e necessità di inclusione.
È all’interno di questo contesto che nel 1987, durante il governo di Ronald Reagan, fa la sua comparsa il concetto di Diversity Management, introdotto dall’Hudson Institute nell’innovativo rapporto Workforce 2000. Tale ricerca, nell’analizzare le tendenze demografiche previste per il ventunesimo secolo, evidenzia come entro il 2000 la figura del mondo del lavoro fino a quel momento prevalente, il maschio bianco etero, sarebbe andata incontro ad un radicale cambiamento: un deciso aumento di donne, persone LGBTQ+ e altre minoranze nelle aziende, all’interno di una società peraltro sempre più multietnica.
Lo studio sottolinea che gli USA, per poter continuare a mantenere una posizione di leadership e di crescita economica, avrebbero dovuto mettere in pratica politiche sociali di inclusione e di organizzazione del lavoro mirate a gestire questa nuova realtà. Per fare ciò sarebbe stato indispensabile individuare soluzioni che tenessero conto della necessità di aiutare, soprattutto le donne, a conciliare lavoro e famiglia, nonché permettere l’ingresso di una forza lavoro multietnica.
Il tempo dimostrava inoltre che i team di lavoro diversificati che si sentivano visibili, validi, presi in considerazione e valorizzati nel proprio potenziale, apportavano nuove competenze, esperienze, prospettive, il successo finanziario si era rafforzato e che, avere membri di culture differenti modificava la sensibilità dell’azienda, favorendo in tal modo anche l’espansione verso nuovi mercati.
La diversità in Europa
Seppur con tempi più dilatati e con differenze tra i vari paesi, anche l’Europa diventava progressivamente più multietnica e caratterizzata da movimenti sociali, in particolare da quelli relativi agli anni ’60 che, come mai prima, tendevano soprattutto ad opporsi alle discriminazioni di genere e a quelle verso le persone LGBTQ+. Un altro step fondamentale è stata la nascita in Inghilterra negli anni ’70 dei Disability Studies (Studi sulla Disabilità), disciplina che, staccandosi dalla diffusa concezione medicalizzante, cambia il focus guardando la disabilità non più come “carenza” individuale che ostacola una vita ordinaria ma come forma di oppressione sociale e di discriminazione verso chi si differenzia dalla norma di individuo abile, portando, come un effetto domino, la segregazione della persona in qualunque sfera sociale, mondo del lavoro compreso.
È in questo contesto che nascono le “Carte della Diversità”, la base della nostra presa di coscienza su diversità e inclusione in ambito aziendale: la prima, La Charte de la diversité en entreprise (La Carta della diversità aziendale), è stata quella francese nel 2004; il primo documento di questo tipo a portare la firma dell’Unione Europea e a ricevere sostegno da organizzazioni, reti, associazioni aziendali e agenzie governative.
La sottoscrizione, su base volontaria, certificava (e certifica) l’impegno delle aziende a diversificare, sensibilizzare e formare i propri team, a tutti i livelli, sul Diversity Management, circa la diversità della società, promuovendo politiche di inclusione, contro le discriminazioni e a favore del pluralismo. La Francia fece da apripista e ad oggi sono 26 le Carte della Diversità generate, una per ciascun Paese aderente, tra cui l’Italia: strumenti attraverso i quali, balzando al 2024, le realtà partecipanti si impegnano pubblicamente a promuovere e valorizzare la diversità e l’inclusione della propria forza lavoro nei rispettivi ambiti di attività, indipendentemente da genere, disabilità, origine etnica o provenienza, orientamento sessuale, identità di genere, età e religione.
Nel 2010 veniva creata anche la piattaforma delle Carte, uno spazio digitale in cui i Paesi aderenti hanno modo di organizzare meeting interattivi, elaborare linee guida, buone pratiche, report, valutazioni e condivisioni delle varie esperienze.
Inclusione e diversità in Italia
Partendo dal Sessantotto, anche il contesto sociale italiano vive grandi rivoluzioni. Il mondo del lavoro, pur con dovute differenze a seconda del settore e del ruolo, è caratterizzato da una crescita di presenza femminile, da una notevole varietà etnica dovuta alle ondate migratorie, dalla legge Norme per il diritto al lavoro dei disabili (1999) ed infine da un deciso allungamento della vita media che rende necessario favorire la convivenza di generazioni lontane (Baby Boomers, Generazione X, Millenials, Generazione Z) per aspirazioni, necessità e prospettive.
Nel 2009, ad opera di Fondazione Sodalitas, viene creata La Carta per le Pari Opportunità e l’Uguaglianza sul Lavoro, ad oggi sottoscritta da 940 aderenti tra imprese, organizzazioni non profit e pubbliche amministrazioni. Nel 2023 è stata proprio l’Italia ad ospitare l’incontro della European Platform of Diversity Charters; l’evento si è concentrato su come diversità e inclusione siano “una leva strategica di crescita competitiva per l’azienda e un fattore fondamentale di sviluppo della società”. Presentando il report D&I in the workplace: Italian companies good practices, le case histories di 52 aziende italiane associate alla Fondazione hanno evidenziato che a livello nazionale ed europeo l’interesse prioritario è sulla parità di genere (90%), seguito da disabilità più tema generazionale (85%) e multiculturalità (74%).
Oggi il lavoro è inclusivo?
Mantenendo il focus sul nostro Paese, per quanto riguarda l’equità di genere, l’Italia si pone al settantanovesimo posto tra i 146 Paesi valutati nel Global gender gap report 2023 (World economic forum), mentre secondo il dossier pubblicato dal Servizio studi della Camera dei deputati a dicembre 2023 il tasso di occupazione femminile è il più basso tra gli Stati dell’Unione europea (14 punti sotto la media), una donna su cinque fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito del peso dell’attività di cura ancora quasi totalmente a carico suo (maternità, soggetti non autosufficienti), quando lavora l’occupazione è spesso precaria, part-time (49% contro il 26,2% degli uomini) e con bassa remunerazione. L’ISTAT rileva inoltre una bassa strategicità dei settori di impiego, attribuita anche al limitato numero di laureate in discipline STEM (science, technology, engineering and mathematics).
Andando ad analizzare la sezione “informadisabilità” presente nel sito del Comune di Torino, si legge che in Italia il 46% della popolazione non rivela la propria condizione in azienda (l’ISTAT indica che il 93% delle disabilità non è immediatamente visibile, come ad esempio in caso di Endometriosi, Fibromialgia, Lupus, Morbo di Crohn); tra chi lo ha fatto (21% del campione intervistato), quasi la metà ha subito conseguenti discriminazioni. L’indice BLISS (Bias-Free, Leadership, Inclusion, Safety, and Support) che misura su una scala da 1 a 100 quanto la forza lavoro si senta inclusa, riporta, in linea con la tendenza globale, 2.8 punti in meno per le persone disabili, per le quali sale all’1,8% la probabilità di aver vissuto situazioni di discriminazione. La situazione rimane difficile anche per chi è neurodivergente (ad esempio spettro autistico e DSA): secondo i dati del Parlamento Europeo solo il 10% delle persone autistiche ha un’occupazione, nella maggioranza dei casi è precaria, di breve durata e sottopagata, mentre l’Associazione Italiana Dislessia a maggio 2023 riporta che il 12% di chi è DSA è stata licenziata per questo, il 37% ha subìto blocchi di carriera, il 69% ha ricevuto richiami e il 70% ha difficoltà nello svolgere il proprio lavoro.
Da un’indagine ISTAT-UNAR realizzata nel 2022 su un campione di 1.200 persone omosessuali e bisessuali non in unione civile, risulta che una su tre è stata discriminata nella ricerca di lavoro, il 61,2% non parla della vita privata nell’ambiente lavorativo, il 31,2% ha subito outing (l’orientamento sessuale è stato reso pubblico senza consenso), otto su dieci hanno vissuto aggressioni (messaggi denigratori o insulti). A Long Way to Go for LGBTI Equality, il sondaggio 2020 dell’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali, rileva che in Italia il 49% delle persone trans è stata discriminata nella ricerca o sul posto di lavoro e che il 16% evita di esprimere il proprio genere attraverso l’aspetto fisico e l’abbigliamento per paura di aggressioni, minacce o molestie. Lo studio Rainbow Europe, pubblicato pochi giorni fa – maggio 2024 – da ILGA Europe, piattaforma per la Commissione Affari sociali del Parlamento europeo che riunisce 422 organizzazioni non governative, riporta che la salvaguardia dei diritti LGBTQ+ è in costante peggioramento e che noi ci posizioniamo al trentaseiesimo posto su 49 Paesi.
A fine 2023 la FRA (Europe Union Agency For Fundamental Rights), analizzando le risposte di oltre 6700 persone afrodiscendenti in tutta l’UE, mette in luce che il 34% si è sentita discriminata nella ricerca di un lavoro e il 31% sul luogo di lavoro. Rispetto agli altri individui hanno più probabilità di ottenere solo contratti temporanei e scarsamente qualificati. L’indagine evidenzia anche come la situazione sia nettamente peggiore per le donne, le quali subiscono oppressioni legate sia al genere che alla razza.
Se da un lato il concetto D&I è considerato fondamentale, i dati ci raccontano una realtà diversa. Andando oltre le statistiche, vediamo quindi a cosa sono dovute le difficoltà di creare un ambiente lavorativo eterogeneo ed equo:
- la paura, molte volte non consapevole, della “diversità” da parte di coloro che hanno avuto il privilegio di non doversi mai mettere in discussione e che al contrario, lo hanno sempre fatto nei confronti delle categorie marginalizzate;
- i pregiudizi inconsci e i bias verso persone che fino ad ora non erano state presenti nel mondo del lavoro o, se lo erano, venivano relegate a ruoli ben precisi, marginalizzati, invisibilizzati e mai avevano preteso di prendere parola, pretendere diritti, muovere obiezioni;
- a livello manageriale, ritenere che possa essere sufficiente assumere qualche figura che si occupi di equità, senza tenere conto che serva una simultanea formazione di tutto lo staff, dai vertici alla base, portata avanti in modo continuativo;
- non prevedere linee guida e strumenti di monitoraggio per costruire e mantenere una forza lavoro diversificata;
- non rendersi sufficientemente conto di quanto, migliorando il trattamento di ogni soggetto, si avrebbe anche una crescita economica dell’azienda;
- la convinzione di avere cose più urgenti da sbrigare rispetto a diversità e inclusione;
- non considerare importante il confronto con chi vive la discriminazione su di sé: il dialogo, ad esempio, con una donna, oppure con una persona disabile (in modo visibile o no), è un tassello imprescindibile per modificare realmente e più velocemente lo status quo.
Costruire un mondo del lavoro a misura di ogni essere umano è un percorso tutto in salita, serve mettere in discussione i privilegi (c’è chi ne ha molti, chi qualcuno), il background, i modi di pensare, allargare gli orizzonti, spostare il focus. Lo si deve sentire come imperativo etico e ci si deve credere. Le aziende continuerebbero a perseguire i loro obiettivi e le persone lavorerebbero in ambienti sereni ed equi.
Nella storia dell’umanità le differenze hanno sempre caratterizzato le società. Si tratta dunque di trovare modalità di dialogo e di “convivenza delle differenze” (Fabrizio Acanfora).